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PRESIDENTE CESCHI /CONSIGLIO SISTEMA EDUCATIVO PROVINCIALE * SCUOLA TRENTINA: « IL MERITO DEI DOCENTI SI MISURA IN CLASSE »

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10.33 - mercoledì 4 settembre 2019

«Restituendo dignità e rispetto al ruolo degli insegnanti, la professione docente potrà tornare ad essere appetibile per i nostri giovani». Così Mirko Bisesti lunedì 2 settembre, alla riapertura dell’anno scolastico e formativo. Qualche giorno prima l’assessore all’istruzione aveva rilevato che, in tale ottica, lo stipendio degli insegnanti nel corso della carriera non dev’essere legato alla sola anzianità di servizio, ma anche al merito, superando gli scatti d’anzianità come unica progressione di carriera a favore di un «meccanismo che punti a dare di più a chi mostra di saper e voler dare di più al mondo della scuola». Ragionamento del tutto condivisibile. Dal quale s’intuisce però anche la difficoltà di un’autentica valorizzazione dei docenti: in un settore produttivo immateriale come l’istruzione, sono in agguato l’aleatorietà dell’apparenza e la genericità degli indicatori che consentano di riconoscere un contributo aggiuntivo in termini di competenza.

Già, perché non è affatto scontato che siano gli insegnanti più appariscenti a offrire le maggiori garanzie professionali. Senza generalizzare, s’intende: un contributo frenetico al funzionamento della macchina scolastica sotto il profilo organizzativo, che di solito “si vede” dall’esterno ed è facilmente quantificabile, risulta poi difficilmente compatibile con la concentrazione sul quid più specifico della docenza, cioè la didattica. Poco male, si dirà: ognuno ha i suoi carismi. Non fosse che gli insegnanti sono pagati, e vanno di conseguenza valorizzati, anzitutto per insegnare e solo in subordine per organizzare, coordinare, gestire processi – nella misura in cui tali attività siano davvero funzionali alla didattica, contribuiscano cioè alla sua migliore efficacia.

Ecco perché una valorizzazione vera dei docenti non può esimersi dal valutare entrando nel merito, e quindi in classe. Operazione delicatissima: non c’è da stupirsi che a livello nazionale e provinciale da oltre vent’anni la questione continui a riemergere ad ogni cambio di governo e mai sia stata non dico risolta, ma nemmeno seriamente affrontata in tutti i rischi e le potenzialità. Molto più facile ricorrere a parametri quantificabili, con la misurabilità e l’apparente oggettività di livelli prestazionali, di azioni definite da una griglia di indicatori.

È la strada intrapresa dalla precedente amministrazione in provincia di Trento, che introducendo con la cosiddetta ‘buona scuola’ del 2016 l’art. 87 bis nella legge 5/06, si è trovata subito a dover decidere quali aspetti della professione docente debbano essere presi in esame. Come criterî sono stati scelti qualità dell’insegnamento, assunzione di responsabilità e aggiornamento professionale. Fin qui tutto bene, come sempre finché le parole lasciano aperte praterie interpretative. I problemi sono iniziati quando si è stretta l’inquadratura su parametri più precisi. La qualità d’insegnamento, stando ancora alla legge, si dovrebbe misurare attraverso il contributo al miglioramento della scuola, all’innovazione didattica e metodologica, alla collaborazione alla ricerca didattica, alla documentazione e diffusione di buone pratiche. Riguardo alle responsabilità assunte si parla di coordinamento organizzativo; per l’aggiornamento si citano i crediti formativi acquisiti.

Come si vede: del concreto lavoro con gli studenti appena le briciole. Ma c’è di più. Il sistema attuato negli ultimi due anni affida alla totale discrezionalità dei dirigenti scolastici sia la decisione di quali aspetti far pesare percentualmente di più, sia il vaglio dei documenti che i docenti possono presentare, anche su autocandidatura. In sostanza (mi si perdoni la banalizzazione) mettendosi in vetrina e dicendo: sono un bravo insegnante perché… Quindi valorizzatemi.

Non solo: le linee guida elaborate dal Comitato provinciale di valutazione del sistema educativo nel luglio 2017, oltre a delegare ogni potere nella scelta dei premiandi ai dirigenti scolastici (componenti in larga misura di quel Comitato) prevedono che i nomi di quanti abbiano ricevuto compensi aggiuntivi – attingendo a denaro pubblico! – non siano resi pubblici, suggerendo l’escamotage della diffusione dei dati in forma aggregata in ossequio a un presunto diritto alla riservatezza. Ne deriva un sistema di autentico vassallaggio che crea tensioni all’interno della categoria, secondo l’eterna logica del divide et impera, e non valorizza davvero la qualità dei docenti ma il loro conformismo opportunistico.

La coda di paglia del sistema è smascherata proprio dall’anonimato: poiché in sostanza si conferisce al dirigente scolastico il potere di premiare soggettivamente una qualità del lavoro che si presuma più elevata (a meno che non si tratti di quantità: ma allora sarebbero semplici straordinarî) lo stesso dirigente deve assumersi la responsabilità di nomi e cognomi accanto alle ‘azioni’ premiate. Tanto più che la stessa legge prevede che in conclusione dell’intero processo il Consiglio dell’Istituzione, organo di controllo in ogni scuola, sia chiamato a esprimersi in ordine alla coerenza tra criterî e distribuzione dei compensi. E come potrebbe, se nessuno tranne il dirigente sa chi ha ricevuto e quanto a ciascuno è stato assegnato?

Da tutto ciò risulta evidente che la strada per un’autentica valorizzazione dei docenti non può passare attraverso questo meccanismo, ma deve calarsi nella profondità del sistema-scuola con il coraggio dell’innovazione vera: trasparente nel dire anzitutto quali competenze del docente si ritengano cruciali e come s’intenda valutarle; poi chi si scelga di premiare e perché. Resistendo a tentazioni di appiattimento sulla burocrazia ed evitando che, come avviene adesso, alcuni siano pagati due o più volte per la stessa prestazione che con il lavoro in classe c’entra poco o nulla (e magari si oscurino nomi e azioni proprio per non far vedere che è così).

Da docenti, sulla base dell’esperienza vissuta negli ultimi anni, oggi possiamo solo dire all’assessore “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non siamo funzionarî, non vogliamo che l’aspetto burocratico (certo, il più comodo da valutare e il più strategico da premiare per l’amministrazione) trasformi definitivamente la nostra scuola, nella percezione rassegnata dei suoi professionisti, in un sistema sempre più modellato sulla logica dello sportello. Sarebbe un grave errore, partendo da una così nobile premessa come l’intento di premiare chi alla scuola vuole e sa dare di più – addirittura con uno scatto stipendiale – non affermare che questo di più dev’essere dato in classe anziché fuori, in attività che nella migliore delle ipotesi restano pur sempre di cornice, nella peggiore sono funzionali a una filiera di comando.

 

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Giovanni Ceschi

docente di latino e greco al liceo “Prati”

presidente del Consiglio del Sistema Educativo Provinciale

 

 

 

 

Foto: archivio Pat

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