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LETTERE AL DIRETTORE

DEBORA FRANCIONE E GIOVANNI CESCHI * TRENTO – LICEO PRATI: «SALVARE I CEDRI DELL’ISTITUTO, NON SOLO UNA SCELTA ECOLOGICA»

Scritto da
10.02 - venerdì 19 luglio 2024

Gentile direttore Franceschi,

alleghiamo quanto ieri pubblicato sul quotidiano l’Adige, anche per consentire la visione ai lettori di Opinione.

 

Debora Francione
Giovanni Ceschi

docenti del Liceo Prati di Trento

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Ciò che si cela dietro la querelle sull’immotivato abbattimento dei cedri del Liceo Prati di Trento, lungi dall’essere uno scontro retorico o un problema di sicurezza, rivela l’opposizione tra due sistemi di lettura della cultura e della società odierna. Da una parte il pensiero moderno si esplica attraverso il linguaggio burocratico e formale che insegue le sue buone ragioni nell’iperlogicità delle motivazioni: i cedri sarebbero un pericolo per l’incolumità dei passanti. Non c’è storia o cultura che tenga: il pericolo può essere anche solo teorico (gli alberi, come qualsiasi altra cosa terrena, non sono garantibili in assoluto: li tagliamo tutti?); poco importa: il burocrate si realizza, e prova un certo edonismo, nell’inchinarsi alla retorica della garanzia totale. Oltre l’umano. Dall’altra parte fa da contraltare il ben più debole linguaggio del pensiero, con cui si difende strenuamente la cultura del passato. È la lingua degli anziani con il loro sistema di valori, fatto di moralità e profonda umanità, di sacrifici e amore per la terra.

L’attacco ai cedri secolari rappresenta, a più attenta riflessione, lo smantellamento del sistema valoriale costruito dai nostri avi, del rispetto della terra (principio ecologico) e l’inesorabile egemonia di un pensiero moderno e tecnocratico. Gli alberi secolari da abbattere sono la testimonianza naturale di un universo bucolico e passato che oggi non serve più: un cedro è un cedro e in quanto inutile ai fini della logica del profitto non merita d’esistere. Eppure, in questa storia di cedri, ne va dei valori che questi alberi ora rappresentano, della storia che portano con sé e del luogo nel quale sorgono: il Liceo Classico, per antonomasia scuola del pensiero e dello studio dell’antichità.

Anche Martin Heidegger si chiedeva “a che servono i poeti nel tempo della povertà?” sottintendendo la necessità di difendersi dalle vuote posizioni del pensiero moderno attraverso la strenua resistenza della parola poetica. Parafrasando il filosofo tedesco si potrebbe dire che i cedri del Prati servono poeticamente a ricordarci chi siamo, da dove veniamo e la responsabilità che rivestiamo nei riguardi del nostro territorio e della nostra storia. La questione, dunque, non è puramente eco-logica ma anche antropo-logica: non ha a che fare solo con l’ambiente, ma più ancora con l’uomo.

D’altronde si ricorda che il rapporto tra l’uomo e l’ambiente non è cosa nuova, ma in letteratura prende piede intorno agli anni Ottanta con la corrente dell’Ecocriticism. Secondo quell’impostazione, la dialettica odierna tra l’uomo e la natura – qui i cedri – racconta qualcosa su di noi e sul modo in cui stiamo imparando a ‘pensare’: le azioni di deturpamento paesaggistico aprono una interpretazione più ampia sull’attuale condizione umana. Già Pier Paolo Pasolini, con il suo articolo sulla scomparsa delle lucciole, aveva messo in rilievo quanto le decisioni atte a deturpare la natura in favore di un’urbanistica più funzionale fossero lo specchio di una lenta e inevitabile disumanizzazione dei tempi moderni.

Quello che la minaccia di abbattimento dei cedri racconta – per dirla con Pasolini – è una storia iniziata con l’avvento della cultura consumistica ben visibile nel modello dominante del ‘centro’, luogo delle città omologate. Di contro la periferia, con le sue culture particolari e paesaggi rurali, resta un luogo geografico antico e intatto, che la politica del ‘centro’ vorrebbe livellare. L’abbattimento dei cedri – si capisce meglio ora – è una questione politica, antropologica e di linguaggio: non è possibile normalizzare, anche a parole, un sistema di pensiero secondo il quale tutto è sostituibile e nulla durevole. Su questo pericoloso adagio della società dei consumi, la classe dirigente sta modellando, da tempo, la coscienza del popolo e ci abitua, così, anche all’omologazione paesaggistica, segno tangibile della mutazione antropologica in atto.

La sopravvivenza dei cedri Himalayani del Prati, certificati come sani e stabili, è minacciata. Quanti alberi sono spariti in silenzio nella città di Trento in questi anni? Ultimi sfregi l’olmo secolare di piazza Fiera e i platani di Lung’Adige Montegrappa, sacrificati al cemento delle autocorriere, mentre il sindaco celebrava quelli dall’altra parte della strada. Ebbene: la scomparsa dei cedri, come fu per quella delle lucciole con l’avvento dell’industrializzazione nell’Italia degli anni Settanta, ci potrebbe dire molto sulla volontà della classe dirigente di ridimensionare un problema che invece è di portata ben più pericolosa. Il tentativo di sbarazzarsi dei cedri, banalizzando altresì la faccenda, mette in luce tutto il vuoto di pensiero, molto comodo al potere, di stampo utilitaristico: ciò che non è edonisticamente fruibile e utilizzabile, o intralcia certi progetti, deve sparire in silenzio.

In ultimo, la storia dei cedri sta rilevando tutti i limiti degli adulti nei confronti dei giovani e futuri cittadini. Non è pensabile educare le nuove generazioni impartendo lezioni antiecologiche e distruggendo, altresì, il valore della tradizione ecologica di un luogo. Ancora più impensabile e raccapricciante se il luogo in questione ospita una scuola che insegna a pensare, come il Liceo Prati.
In conclusione disfarsi dei cedri non è, né più né meno, che la disfatta stessa dei valori ‘periferici’ e antichi, che il modello del pensiero del ‘centro’, e con esso del linguaggio del potere, sta lentamente e inesorabilmente distruggendo.

 

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