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SOCCORSO ALPINO – TRENTINO * SCOMPARSA GINO COMELLI: CAINELLI, «PERSONA LUNGIMIRANTE, CON VISIONE CHIARA E ANTICIPATRICE»

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10.14 - giovedì 11 luglio 2024

(Il testo seguente è tratto integralmente dalla nota stampa inviata all’Agenzia Opinione) –
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Il Soccorso Alpino e Speleologico Trentino perde con Gino Comelli un tassello importante della sua storia.

“Gino ha dato moltissimo al mondo del soccorso organizzato in montagna. – commenta il presidente del Soccorso Alpino e Speleologico Trentino Walter Cainelli – Era una persona lungimirante, con una visione chiara e spesso anticipatrice, e con la gentilezza e la disponibilità verso gli altri che lo contraddistinguevano, è stato un vero protagonista all’interno della nostra organizzazione. Senza dubbio, è anche grazie al suo contributo e alla sua visione che il Soccorso Alpino e Speleologico è cresciuto e si è innovato in questi ultimi quarant’anni”.

Nato nel 1954 in Friuli Venezia Giulia, dopo essersi trasferito in Val di Fassa, Gino è entrato a far parte del Soccorso Alpino e Speleologico Trentino nel 1980. La sua Stazione era quella dell’Alta Val di Fassa, di cui è stato a capo dal 1990 al 2015. Tecnico di elisoccorso e istruttore nazionale, oltre che Guida alpina, era una soccorritore preparato e attento, un punto di riferimento per tutti.

Soltanto pochi mesi fa, a dicembre, lo avevamo intervistato in occasione del suo pensionamento dall’Aiut Alpin Dolomites, realtà che aveva contribuito a fondare. L’intervista è disponibile sotto ed a questo link.

 

 

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Intervista a Gino Comelli

 

42 anni di servizio, fra cambiamenti, innovazioni e valori mai tramontati

4.000 ore di volo, oltre 3.000 missioni e 42 anni di onorato servizio come soccorritore. Senza considerare l’attività parallela fra le Guide Alpine, di cui è anche istruttore, e da Maestro di Sci. Di fronte a tutto questo, sembra quasi strano che la prima passione di Gino Comelli, da adolescente, fosse non tanto l’alpinismo quanto la speleologia. «È così che mi sono avvicinato alla montagna, – racconta Comelli – entrandone nei meandri e suscitando le ire di mia madre, che mi accoglieva sulla porta di casa pronta a sgridarmi per i vestiti sporchi che le riportavo».

 

Sono stati proprio i tuoi genitori a dirottarti allora verso il mondo verticale.
Se proprio non riuscivo a fare a meno della montagna e dell’avventura, tanto valeva fare dei corsi che mi permettessero di non lasciarli a casa in pensiero. Non ero ancora maggiorenne, mio padre dovette firmare un’autorizzazione e fu lì che iniziai a praticare l’arrampicata e l’alpinismo.

 

Nella terra di Comici, Carlesso e Cozzolino.
Sì. Diciamo che il Friuli, dove sono nato e cresciuto, ha una solida tradizione per quanto riguarda l’arrampicata e anche questo ha aiutato i miei sogni da ragazzo. Iniziai a diventare piuttosto bravo: scalavo vie di VI grado, partecipai ad una spedizione in Groenlandia e quando arrivò la chiamata del servizio militare obbligatorio mi ritrovai conteso fra la Scuola militare alpina di Aosta e la Scuola alpina delle Fiamme oro di Moena. La prima chiamata fu di quest’ultima e così arrivai in Val di Fassa.

 

Qual è il tuo primo ricordo di questa valle, che poi ti ha adottato?
Sicuramente la prima uscita fatta con la Scuola alpina in Catinaccio. In Val Rosandra ero solito arrampicare con le Superga ai piedi, molto più leggere dei classici scarponi. Pensavo di poter fare lo stesso anche qui ma venni subito fermato da uno degli istruttori. Fu Bepi De Francesch ad intervenire in mia difesa: «Comelli può arrampicare come vuole» disse.

 

E, proprio a partire dalle tue Superga, La Sportiva creò il suo primo paio di scarpette: le Winkler, nel 1976.
Accadde quand’ero già istruttore militare presso la Scuola alpina. Fra i miei allievi, un certo Lorenzo Delladio, cui raccontai come le mie scarpe da ginnastica, utilizzate per arrampicare, fossero abbastanza performanti per quanto riguardava la suola ma peccassero di tomaia: la tela si distruggeva facilmente. Lorenzo m’invitò allora nella fabbrica di suo padre, Francesco, che ascoltò attentamente i miei problemi, costruendo le prime scarpette, in pelle e con una suola liscia mutuata dagli pneumatici utilizzati nei rally, disciplina che già Lorenzo praticava e da cui trasse ispirazione.

 

Dopo l’esperienza in Polizia, ormai fassano d’adozione, hai deciso di restare in Trentino.
E in Val di Fassa nello specifico. Non è stata una vera decisione, ma qualcosa di naturale: in questa valle mi sono sentito subito accolto, forse per due motivi principali. Il primo era la lingua: anche nel Friuli da cui provengo si parla ladino, nonostante sia un ladino con alcune notevoli differenze rispetto al fassano. Ma ecco: la barriera linguistica per me non è stata mai veramente un ostacolo. Il secondo motivo era la mia attività alpinistica: si trattava di anni decisivi per l’arrampicata, in valle si muovevano tantissimi forti alpinisti con i quali spesso mi legavo in cordata e la Val di Fassa stessa aveva – e ha tutt’oggi – un forte e quasi devoto rispetto verso la montagna e i suoi frequentatori.

 

Da lì nacque l’esigenza di diventare più di un semplice frequentatore.
Esatto: così ho iniziato i corsi guida a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Poi, nel 1981, sono entrato a far parte della stazione Alta Val di Fassa del Soccorso Alpino e Speleologico.

 

Aver svolto 42 anni di servizio nel Corpo significa anche essere stato testimone di grandi e decisivi cambiamenti.
Assolutamente sì. All’inizio non avevamo quasi nulla, sia in termini di formazione che in termini di mezzi e attrezzature. Certo, conoscevamo l’ambiente e ne eravamo in qualche modo “esperti” ma si trattava di un servizio veramente spontaneo, quasi al limite dell’impulsivo. Anzitutto, le chiamate non avvenivano come oggi: per trovare persone disposte a mettere da parte qualche ora del proprio tempo ed uscire a soccorrere bisognava recarsi nei luoghi di ritrovo principali, come i bar del paese. Questo però ci permetteva di essere tanti, tutti uniti e ben amalgamati con la comunità. Per ogni intervento uscivano almeno 15 persone, spesso 20 e mai meno di 10. Oggi le cose, anche da questo punto di vista, sono cambiate: escono meno soccorritori ma si è più organizzati.

 

E per quanto riguarda i mezzi?
Ricordo ancora il primo fuoristrada che comprammo come stazione Alta Val di Fassa: ci sembrava l’apogeo della modernità ed era un acquisto estremamente necessario. Prima usavamo quello dei Vigili del Fuoco ma ben presto fu evidente che il suo utilizzo per i soccorsi in montagna era il più frequente. E avere un elicottero era ancora un’utopia.

 

Proprio dall’esigenza di un tempestivo soccorso in elicottero nacque nel 1990 l’avventura di Aiut Alpin Dolomites, di cui sei stato fra i fondatori.
Già nel 1974, quando ancora ero in Polizia, avevo svolto alcuni periodi di servizio a Cervinia. Rimasi piacevolmente sorpreso dalle modalità in cui venivano gestiti i soccorsi, sia da parte di Rega che di Air Zermatt. La situazione elicotteri in Trentino era gestita con due mezzi: quello del IV Corpo d’armata alpino – il cui comandante, il generale Daz, fu uno dei primi presidenti del Soccorso Alpino e Speleologico Trentino – e quello, la cui gestione avveniva a livello regionale, dei Vigili del Fuoco di Trento. Il problema era che gli elicotteri militari non potevano recuperare persone decedute, mentre gli elicotteri dei Vigili del Fuoco di Trento avevano tempi lunghissimi perché non esisteva ancora una Centrale operativa e occorreva attendere che il medico arrivasse dall’ospedale fino al Nucleo elicotteri, il che faceva perdere all’incirca un’ora di tempo. L’idea fu allora quella di fornire un ulteriore servizio più tempestivo per i soccorsi in montagna, utilizzando un unico mezzo che potesse rivolgersi a vallate limitrofe come Fassa, Gardena e Badia.

 

Tutto questo mentre nel Soccorso Alpino e Speleologico diventavi istruttore e capostazione. Immagino sia scontato chiederti qual è stato il momento più difficile.
La Val Lasties. È uno di quegli eventi che ti mettono di fronte all’imponderabile: in quel frangente, al di là delle critiche, abbiamo fatto tutto quello che bisognava fare. Ogni retro pensiero era superfluo, anche se ovviamente il dolore per la perdita di quattro uomini, prima che soccorritori, resta. E non va mai via.

 

Una componente umana che nelle narrazioni di solito passa in secondo piano.
E invece non dovrebbe. Io sono riuscito a fare ciò che ho fatto, scegliendo questa vita, proprio perché avevo al mio fianco una famiglia che mi supportava e talvolta sopportava. È un aspetto su cui non si riflette mai a sufficienza e che è importante ricordare sempre.

 

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Foto di Gino Comelli in alto: Denis Costa

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